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giovedì 26 febbraio 2009

Un Adriatico che muore

Riporto integralmente il testo dell'articolo pubblicato su "La Repubblica" di ieri:

Le reti vuote dell' Adriatico
Repubblica — 25 febbraio 2009 pagina 33 sezione
Peschereccio ANTONELLA LUCI (Nel mare Adriatico al largo dell' Abruzzo)
Sotto, il mare è vuoto. Il deserto, sommerso, è invisibile dal ponte invaso di corde indurite dalla neve e dagli spruzzi, di reti e di catene. La chiglia si impenna e precipita in un impasto nero e grasso, come una valanga di ferro e di cemento in cerca di un' altra ondata bianca che la respinga dalla sabbia nel vento. Sopra, l' Adriatico è pieno. Anche la selva dei pescherecci, in superficie, si nega agli occhi che però possono, con uno sforzo, sentirla vicina nelle ombre che non smettono di scorrere. Le luci sono spente e di visibile c' è solo il rumore dei motori, così prepotente da assumere un profilo e un odore. È notte, la prima in cui si cala dopo quattro inutili di tempesta.
Ma le alici, tra Pescara e Giulianova, sono scomparse. Il filo delle loro tracce possibili, verde e leggero, resta impresso nel sonar. Il sacco, per diffidenza, viene tirato a poppa appena una striscia prugna rivela il Gran Sasso e la Maiella, lontano. «Alacce» sussurra alla radio il capitano dell' «Antonella Luci». Devono saperlo anche quelli sulla «Costellazione», che tira la seconda estremità della «volante». Quintali di un novellame dell' aringa, stretti in una palla enorme, gonfia di pesci e sospesa dalla gru. Vale meno dell' immondizia e il mozzo, rapido e muto, scuce la maglia. Milioni di alacce, soffocate, ripiombano ed esplodono nella schiuma che le rigurgita, d' argento, come una bomba in cui si gettano le nuvole dei gabbiani. Centinaia di barche, ora, svuotano fra Termoli e San Benedetto.
Alicette, boghe, sugherelli, sciabole, mustelle, gronchetti, trigliette, zerri: tonnellate di «lische povere», inutili a terra, scaricate nella corrente. Il segreto mostruoso del medio Adriatico italiano è custodito in questo incessante prendere per buttare, nel togliere tutto affinché resti appena qualcosa.
Sembrerebbero predone, le marinerie, vecchi pirati. Invece sono schiavi e sanno di bruciare, per due mani di padroni, ciò che resta del loro tesoro. Non è senza significato che tutto possa accadere «fuori e sotto», dove nessuno di chi sta «dentro e sopra» assiste all' ultima aratura dei fondali.
Anche l' Abruzzo e il Molise, terra di pastori e di contadini scesi infine sulla costa, seguono con annoiata indifferenza l' agonìa della loro piccola pesca, lo spegnersi della vita nel mare, la fuga impressionante dei pescatori dagli scafi invecchiati. Una stagione si chiude, ed una storia, con un altro doloroso e taciuto fallimento. All' orizzonte, una ritirata verso il nulla. Lasciare che il tempo, per giorni, scorra nei porti, nei mercati delle aste, sulle coperte degli strascichi, delle vongolare e delle lampare, è come seguire la parodia di un Paese concentrato nella celebrazione del proprio funerale, senza badarci troppo. «In mare non resta quasi niente - dice l' armatore Giuseppe Gasparroni - così si pesca sempre di più. Uno sforzo insostenibile, garantito da pescatori ignoranti, grossisti irresponsabili e politici corrotti». Dopo quarant' anni di razzìa, il cerchio si chiude. L' Adriatico è uno dei mari più inquinati del mondo. Era il più ricco, con oltre 700 specie: per i biologi gli resta un decennio di «mutante equilibrio».

La temperatura è salita di 2 gradi. L' acqua, solo balneabile, è infetta. Alghe, molluschi e pesci tropicali, trasportati sotto le chiglie o nelle acque di stiva delle navi, consumano la vita originaria. Il 70 per cento del pesce venduto, è importato da Asia, Africa, America del Sud e Mare del Nord. Decimati, in otto anni, i pescatori italiani: da 48mila a 30mila. Le barche, da 20mila, sono crollatea nemmeno 14mila. In Abruzzo restano 6mila addetti e 800 pescherecci. In Molise, la più piccola flotta italiana, sopravvivono mille uomini e 70 barche. Età media: 56 anni. Giovani: una rarità!
Nessun settore del lavoro ha mai registrato un simile crollo, certificato dalla cifre ufficiali: un quarto di catture in meno solo nell' ultimo anno.
«Sembrerebbe una selezione positiva - dice ad Ortona il fisico Lelio Del Re - un salvifico disarmo.
Le statistiche coprono invece l' ennesima truffa». La grande fuga dal mare moribondo, infatti, non esiste. I pescherecci, acquistati con i fondi dello Stato e dell' Europa, vengono ora rottamati grazie ad altri fondi dello Stato e dell' Europa. Migliaia di licenze, passano nelle mani di pochi investitori finanziari. Le barche, secondo il ministero più piccolee dotate di motori meno potenti, raddoppiano invece clandestinamente stazza, reti e cavalli. Nessuno cala sacchi con maglie da quattro centimetri, per risparmiare i piccoli. «Se non usi quelli illegali da uno - dice il retista Mario D' Incecco detto Vulcano - ormai torni vuoto. Le reti devono misurare chilometri,i motori da 250 superano in realtà i mille cavalli. È come cacciare gli ultimi fringuelli con il bazooka».

Anche i pescatori non si estinguono. Spariscono nel somda ricchi, tornano poveri. «I controlli - dice il comandante di peschereccio Mario Camplone- da Ortona in giù non esistono. Il Sud è una distesa dove vale una sola regola: chi arriva prima ed è più grosso, fa ciò che vuole e si prende tutto». L' abuso è così distruttivo che i vongolari, che da decenni rasano costiere, riservee aree tossiche con le turbosoffianti, vengono indicati come «esempio felice di autoregolamentazione». merso tollerato che ormai soffoca il Mediterraneo. Sul molo di Giulianova, o di Pescara, alla mezzanotte della domenica si muovono senegalesi, tunisini, marocchini, albanesi, algerini, ghanesie messicani. Sette imbarcati su dieci, lungo l' Adriatico, sono immigrati pagati in nero. Gli altri sono disoccupati di Puglia, Campania e Calabria, i nuovi pendolari della crisi. Da domenica a giovedì a bordo, 200 euro a settimana.
La banchina di Vasto, verso sera, è occupata da tonnellate di catene e di magli agganciati alle reti. Sono le nuove «americane», gli strascichi importati dall' Atlantico africano. Due per barca, scavano la sabbia con le lame e incidono solchi di metri sul fondo. Un vento marcito si alza irrespirabile da colonne di fango. «Chi passa dopo - dice Carla Giansante all' Istituto zooprofilattico di Giulianova - non pesca niente per settimane. Eppure non esiste uno studio attendibile sugli effetti di questa aratura senza precedenti. I ricercatori sono uno strumento politico: o certificano e autorizzano un interesse economico, o vengono emarginati». Il risultato, sul porto canale lungo alla foce del Pescara, è stupefacente. Centinaia di massi sottomarini, essenziali per la riproduzione, strappati in alto mare e abbandonati sulla strada. Sulla spiaggia, tra Ortona e Termoli, c' è invece il cimitero degli scogli. Vengono staccati dalle coste croate con i martelli pneumatici e venduti clandestinamente ai pescatori italiani. Nelle fessure, i datteri di mare, protetti in tutto il
Mediterraneo. «Valgono - dice un commerciante nel Caffè Fachiro di Termoli - più della cocaina».
È un reato sia offrirli che consumarli. Quattro ristoranti della costa, tra Pescara e Francavilla, li presentano però oggi ai loro clienti. Basta insistere appena: un piatto, 52 euro. «La verità - dice il veterinario pescarese Vincenzo Olivieri - è che la pesca italiana non ha regole, non ha dati credibili e si esercita senza controlli. Tutto falso, dalla quantità al reddito dichiarato. La biomassa pescabile, in pochi anni, è crollata. L' unica misura adottata è stato il fermo». Una beffa.
In Adriatico i pescatori, a spese pubbliche, devono restare a terra un mese tra luglio e agosto. Centinaia di piccoli armatori tengono così barche in Croazia: nello stesso mare, in estate pescano il doppio. Gli altri vagano nel Mediterraneo, in acque internazionali, e sbarcano il pesce nei porti amici. «Ortona, Termoli, tutta la
Puglia e la Sicilia- dice Carlo Salvatore, responsabile della Lega Pesca di Abruzzo e Molise - sono considerati fuori controllo. Altrimenti si va in Croazia, in Albania e in Grecia, lungo la costa africanao in Spagna: e da lì il pesce adriatico torna in Italia pulito». Per i piccoli pescatori, è devastante. In estate le importazioni sfondano quota 90%. Nelle trattorie dei porti si mangia persico del lago Vittoria e pangasio del Mekong, il fiume più inquinato del Vietnam. Gli italiani si buttano sul surgelato, sullo sfilettato e sui bastoncini. Il prezzo, serve e qual è il prezzo. Notti e giorni attaccati a telefono e radio, con l' incubo di non coprire le spese del gasolio. Per un chilo di alici mi danno 60 centesimi: a Pescara le comproa 4,50 euro, a Roma dopo due ore salgono a 9. Certe sere devo cedere a 50 centesimi e al mattino, a Milano, si vende a 16 euro. Se non accetti, ti ritiri».

È questo l' Adriatico, devastato da fiumi tossici e coste cementificate fino alla spiaggia, che lo Stato cede in appalto a un pugno di trafficanti che il mare non lo vedono nemmeno. Al punto che di 700 specie, per risparmiare costi, non ne sfruttano più di 60 e in tavola ne mandano una ventina. Tutto il resto, pescato, ucciso e distrutto. «La pesca- dice Pietro Giorgio Tiscar, scienziato dell' Università di Teramo-è un' attività economica biologicamente predatoria. Si esercita in mare, ma tutto si decide a terra, dove chi pesca non c' è. Le analisi garantiscono che un pesce non faccia male, non accertano se fa bene. Il mercato assicura la costanza della fornitura, non la sua compatibilità con la vita marina. Dopo anni di abbandono, siamo al limite. Sei pescatori non si decidono a unire le forze per controllare direttamente quantità e prezzi, sono destinati a sparire. Se i consumatori non capiscono che il "pesce povero" quando è fresco è ottimo, sono destinati a strapagare il conto per chi pesca, crolla.
Un canale, aperto nel mistero, che non si chiude più. «Frodi e reati - dice il vice comandante della Guardia costiera di Pescara, Donato De Carolis- si moltiplicano. Seppie dell' Atlantico invece che dell' Adriatico, totani del Pacifico al posto di calamari mediterranei, limanda africana spacciata per sogliola, brotola senegalese per cernia, squalo smeriglio per pesce spada, pollack per merluzzo, polipi argentini per moscardini. E poi orate e spigole, allevatea olio di colza». Le sanzioni sono così basse che sollecitano la trasgressione. Il fermo pesca? Un danno costoso. «Biologicamente - dice il direttore degli armatori molisani, Domenico Guidotti - è inutile. Andrebbe fatto semmai in primavera, o in autunno, se si volesse proteggere la maggioranza dei pesci. Economicamente, per i pescatori, è una mazzata. Alla ripresa si prendono solo triglie e dopo due giorni non conviene nemmeno portarle a terra. Il governo dovrebbe chiarire chi tutela questa sosta». Con la garanzia dell' anonimato, sul molo di Giulianova, lo spiega Luciano, grande commerciante. «In Italia il mercato - dice - lo fanno in venti. Per il tonno, addirittura in tre. Quaranta per il pesce azzurro. I
grossisti sono controllati dalle banche e ricattano i pescatori, a cui anticipano o prestano i soldi per pagare i debiti. Le società sono nelle mani di investitori stranieri, spagnoli, giapponesie dell' Europa orientale, che possiedono il monopolio delle importazioni.E qui il cerchio si chiude. Il pesce importato costa meno e rende di più, tagliai prezzi del pescato nazionale, strozza i piccoli e soddisfa industrie e banchi della grande distribuzione. La politica si pagai costi elettoralie finge di rispondere alle pressioni atlantiche della Ue.

Uno scambio: licenza di distruggere per licenza di speculare. A saltare, chi va in mare e chi entra in pescheria». Per questo i mercati ittici sono semideserti. In quello di Ortona, nella sala aste, c' è un solo comandamento: «Non mangiare, non bere e non sputare». Come sempre, anche oggi arrivano poche casse. Nessuno accetta di dichiarare il pescato, pagare la commissione e pure le tasse. La vendita, via telefono satellitare, si consuma nelle cabine dei pescherecci ammassati al largo, attorno alle piattaforme del gas. Dialetto e parole in codice, un volume assordante.I comandanti, gli stessi armatori, sono dipendenti dei grossisti. «Appena ritiri la rete - dice Mario Camplone- conti le casse e riferisci la quantità al tuo uomo. È lui a decidere se devi portarea terrao buttare via, quanto ne gelato allevato in mezzo mondo. L' Adriatico muore: l' Italia, con i suoi piccoli pescatori, si gioca la cultura del mare».
Come è avvenuto con il tonno rosso, in estinzione. Al largo di Abruzzo e Molise centinaia di pescherecci aspettano già il passaggioe l' apertura della caccia, a metà aprile. Milioni di investimenti, tecnologia militare, quote pesca accumulate tra l' Africa e la Spagna. E' una guerra vera, contro pugliesi e siciliani, con affondamenti e rappresaglie, taciuta e coperta. Chi intercetta il branco, in un giorno, mettea bordo 200 mila euro. Nessuno sa, nonostante controlli e inseguimenti, quanto se ne cattura.
«La verità - dice Antonio Fanese, pescatore - è che si consuma una strage. I piccoli da tre chili, vietati, vengono ceduti agli ingrassatori croati. Ciò che eccede la quota, viene sbarcato di notte in laboratori clandestini del Sud, o portato a Malta, o in Spagna. Ingrassa in gabbia, prima di finire in Giappone per 35 euro il chilo.
Non conosco chi denunci più di terzo del pescato». Una partita di tonno presa nella fossa di Pomo, fra Termoli e Vasto, è finita al gonfiaggio in Portogallo, trascinata via mare in Cina, messa in scatola in Thailandia e venduta in un alimentari di Avezzano come prodotta in Sicilia da una società di Tokio. «Un mondo al collasso- dice a Giulianova Vincenzo Staffilano, leader degli armatori abruzzesi- paga le scelte scellerate di una politica che si nutre di regole apparenti. Le proiezioni dicono che entro cinque anni la biomassa pescabile calerà del 70%e l' Adriatico sarà esaurito. Nel 2013 cesseranno anche i fondi Ue: deve essere chiaro che, senza limiti drastici, peri pescatori italiani il conto alla rovescia è già partito». Il mare senza pescatori, come la campagna senza contadini e la montagna senza allevatori.
In Abruzzo e in Molise si annuncia la rivolta, a partire dalla truffa di Stato sulle «Blue Box». Ma si sa bene che, in una riserva di «colpevoli», nessuno può permettersi di reggerla. Un Paese all' epilogo delle sue risorse, alla fine di una parabola, che rinuncia alla propria civiltà pur di salire sull' ultimo giro di giostra di un mercato già fallito. Solo Tierro, sull' »Antonella Luci», non conosce il rimpianto che, con la passione per una vaga paura,
unisce oggi l' Italia. Immigrato dal Senegal, in quattro anni di aggiughe siè costruito una flotta a Dakar. Pescando in Adriatico fa pescare nell' Atlantico. Pochi, negli Abruzzi estinti, sono abruzzesi quanto lui. Se rientra, non può tornare. Così rimane qui, in mare, senza una parola: ed è il suo più doloroso rimpianto.
DAL NOSTRO INVIATO GIAMPAOLO VISETTI
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2 commenti:

Fabio Vallarola ha detto...

Riporto integralmente anche il comunicato pervenuto a seguito della pubblicazione:

Gentile Visetti, Le scriviamo relativamente al servizio giornalistico del 25 febbraio scorso pubblicato su la Repubblica dal titolo “Le reti vuote dell’Adriatico”, dove compaiono, assieme ad altre, nostre dichiarazioni. Ciò che emerge dal Suo scritto non è la registrazione neutra di un sistema complesso, bensì l’appassionata descrizione di sentimenti al termine di un lavoro consistito nell’assemblare spezzoni di affermazioni con dati tecnici a volte inesatti ed altre imprecisi, che danno un quadro non attinente di quello che è lo stato della pesca in Abruzzo e Molise.
Quale è la fonte pubblicata ed avvalorata dalla comunità scientifica internazionale dove si afferma che l’Adriatico è uno dei mari più inquinati del mondo?
L’informazione, non la narrazione, ha il delicato compito di riportare eventi (possibilmente esatti) e testimonianze (possibilmente veritiere) dalle quali il lettore trae proprie e legittime considerazioni. Il suo articolo, invece, induce a delegittimare tutti gli operatori nel settore (ricercatori, portatori di interesse e gestori) determinando nel lettore un senso sterile di sfiducia generale verso tutto e tutti a fronte degli sforzi di chi, molti di più di quelli che crede, opera nell’ambito della ricerca, della formazione, della gestione e dell’organizzazione produttiva per uno sviluppo sostenibile e non astratto.
Ci dissociamo, pertanto, dalle informazioni contenute nel servizio, in quanto non esatte scientificamente, e dalle conseguenti considerazioni.


Prof. Pietro-Giorgio Tiscar, Università degli Studi di Teramo;
Dr. Vincenzo Staffilano, Federpesca-Abruzzo

Anonimo ha detto...

Infatti non credo che l'articolo avesse ambizioni scientifiche. Scrivere un pezzo per una rivista di settore è una cosa, scrivere un articolo per un quotidiano nazionale è un'altra. Poi il pezzo di Repubblica non fa che scoprire l'acqua calda: della crisi nera dell'Adriatico (da molti considerata irreversibile) si discute da 20 anni.

E' chiaro anche che l'università di Teramo si preoccupa di non vedersi attribuite le conclusioni tratte dall'articolista, ma questo non significa che l'articolo non sia una denuncia argomentata e fondata su dati reali (aldilà della dichiarazione secondo cui l'Adriatico sarebbe uno dei mari più inquinati del mondo, che è senz'altro opinabile)